MACRO - Michele Sambin
- Cristina Del Russo
- 12 mag 2019
- Tempo di lettura: 7 min
"Desiderio", la parola che alla base della vita e che ha determinato l'evoluzione della specie.
Questa parola, deriva da una parola latina de-sider, "senza stelle". Senza le stelle, senza il principio di orientamento l'uomo non è in grado di orientarsi. Il desiderio di Sambin, fin da piccolo è stato quello di non separare tra loro la pittura e la musica. Ha avuto la fortuna di incontrare due strumenti tecnologici fondamentali che hanno cambiato il pensiero di Sambin di concepire l'arte: il computer, attraverso cui fare musica e il video.
Michele Sambin racconta come il video, appena spopolato negli anni 70’, fosse stato per lui fin da subito uno strumento per comunicare idee, pensieri; un po’ come la pittura o il blocco di schizzi per appuntare disegni, pensieri o progetti. “ Il tempo consuma” si tratta di una performance realizzata da Sambin nel 1978 in cui non c’è montaggio. –“Lasciamo che il tempo consumi le immagini”, si tratta di una tecnologia, quella del video, dove il desiderio di Sambin è quello di comunicare idee e pensieri in tempo reale. Utilizzare quindi il video come uno strumento che espande le possibilità che ha in “Il tempo consuma”; Sambin dice: -“volevo diventare tanti me che si parlano in questo modo”. L’immagine, ne “il tempo consuma”, che all’inizio era ben definita, a poco a poco si sbiadisce, non c’è più identità; la parola iniziale “ il tempo consuma” diventa suono astratto. Vengono rotti gli schemi ordinari del tempo e dell’ascolto; si tratta di un opera che propone l’idea che il tempo non sia più lineare; non c’è più un prima ed un dopo. Tutto diventa un “loop”, un anello, un aspirale. Questo costituisce un primo strumento di registrazione video, che consente a Sambin di fare che cose che non possono essere fatte se non con il video. Non si tratta di un semplice registratore di immagini.
All’inizio, il video, era una sorta di specchio in cui la cosa più importante, per Sambin, non era quella di registrare, filmare immagini, ma di lavorare con le immagini in tempo reale, quindi video performance. Fare cose che nella realtà non si possono fare.
Sambin comincia proprio da qui ad offrire una visione che si sviluppa nel tempo con “i video in scena che trasformano le azioni dei performer dentro e fuori dal tempo universale”.
L’artista si immerge, lavorando sulle porosità del tempo: ritardo, dislocazione, circolarità, traslazione, interferenza, sensoriale, sinestesia, sono tutte prove della durata nel tempo, di traduzione simultanea dell’atto che ne riverberi la presenza attraverso il tempo.
Si dispiega una vera e propria poetica del loop, dove loop vale anello che rappresenta un dispositivo tecnico ,un criterio compositivo, un orizzonte poetico. Il loop per Sambin è una categoria dello spirito. E’ un percorso conoscitivo che non viene mai abbandonato, che si reitera affinandosi ed evolvendosi continuamente. “Il tempo consuma le immagini, il tempo consuma i suoni”- dice Sambin nella video performance. E’ un lavoro che è allo stesso tempo insieme : video-performance, videodocumentazione, e video autonomo.
In “UNA NOTTE SENZA LUNA”, in Salento, si tratta di pittura digitale. Un’ opera realizzata all’aperto, in un oliveto secolare.
In quest’opera continua a rimanere il concetto di live.
L'opera di Michele Sambin, è un lavoro scenico/pittorico/musicale, un distillato del percorso nell'arte dell'artista.
Il suo percorso nelle arti è segnato dal desiderio di comunicare mettendo in dialogo i diversi linguaggi, la pittura e la musica innanzitutto, poi corpo, gesto, spazio.
Nell'opera "In una notte senza Luna" tutti questi elementi sono messi in gioco per dare sostanza a un'opera che sfugge alle definizioni.
Lo strumento protagonista è la pittura di luce, un dispositivo tecnologico che consente all'artista di dipingere dal vivo in presenza degli spettatori.
In "In una notte senza Luna" il supporto della pittura è dato dal paesaggio; la profondità è determinata da migliaia di foglie che formano le chiome degli alberi.
I segni di luce colpiscono questa materia e il pennello digitale fa emergere dal buio immagini immateriali che si materializzano sulla superficie viva degli olivi. La performance nasce per il Salento, terra in cui la presenza degli ulivi è imprescindibile dal paesaggio.
Il lavoro di Sambin accende i riflettori su questo paesaggio oggi posto sotto minaccia offrendo spunti per la salvaguardia.
La particolarità dell'opera è infatti, data dall'attenzione al territorio. Di tutta questa esperienza non resterà traccia.
Il supporto di questa particolare forma di pittura infatti è la memoria degli spettatori che l'hanno vissuta: gradualmente la pittura bidimensionale si trasforma in spazio tridimensionale che gli spettatori sono invitati a percorre, diventando così parte di un paesaggio vivo in movimento.
Nell’ultima fase, immaginando che intorno ci siano degli spettatori intorno, che hanno un grande desiderio di entrare nell’opera diventando parte di questo gioco.
L’uso delle tecnologia, ci fa capire come, non solo può essere performante ma diventa vero e proprio linguaggio artistico dove l’arte non è solo un insieme di artefatti ben fatti.
La pittura digitale qui si perde su delle bandiere bianche che sono il movimento. Si crea una dimensione inimmaginabile, imprevedibile di gioco cromatico. Sotto le bandiere ci sono i musicisti che hanno degli zaini con casse acustiche molto pesanti.
STUPOR MUNDI, dedicato a Federico II, è uno spettacolo che Sambin ha realizzato al Castello Maniace di Ortigia.
Uno spazio perfetto per la modalità di lavoro teatrale che Sambin sta realizzando con sua moglie Pierangela e i suoi giovani compagni di lavoro: quadri sonori di breve durata dislocati in punti diversi di uno spazio. Gli spettatori visitano il luogo visitando i quadri sonori.
Sambin parla di tableau sonnant in cui cerca di dare un’immagine verbale ad una particolare forma di comunicazione artistica che utilizza sincronicamente diversi linguaggi.
Il tableau, quadro, è una superficie circoscritta da una cornice dentro cui sta l’immagine. Il supporto è la materia reale o virtuale su cui le immagini vengono fermate.
Il quadro non ha un tempo di fruizione definito. Esiste al di là dell’autore che l’ha creato e resiste nel tempo malgrado l’assenza dello sguardo che lo contempla.
Ma quando al termina tableau si aggiunge la parola vivant immediatamente scatta la sua diversa relazione con il tempo e con lo spettatore, con la memoria e lo sguardo.
Il tableau vivant esiste solo nel tempo e vive solo della diretta relazione con chi lo sta guardando.
La memoria di chi ha visto diventa così il particolare supporto su cui le immagini si fissano.
Il tableau si stacca dalla dimensione atemporale per entrare nell’arte che contempla il tempo e la condivisione: l’arte della scena, il teatro. E diventa vivant perché costituito da esseri viventi che interagiscono tra loro avendo come compito la creazione di un’immagine. Un immagine che evolve nel tempo senza necessariamente avere uno sviluppo narrativo ma che si rivolge piuttosto all’immaginario, alla costruzione di ciò che non appartiene alla realtà che ci porta verso un universo visionario.
Per un gioco di assonanza , ma soprattutto per meglio definire ciò che facciamo, vivant diventa sonnant.
Un quadro vivente che suona. Una particolare forma di teatro-musica.
Un ennesimo tentativo di definire con le parole ciò che spiega benissimo la scena attraverso i corpi, la musica, il video, la pittura, producendo un inestricabile sistema di segni capace di generare visioni emotive.
Tutto ciò che produce Sambin in scena è tassativamente live. Nulla è preregistrato. Tutto è leggero, si crea e si distrugge davanti agli spettatori materializzandosi in pochi istanti per poi svanire lasciando traccia solo nella loro memoria.
Ad Ortigia Sambin viene colpito da un’ opera di incredibile forza suggestiva, un quadro di Caravaggio che ritrae il seppellimento di Santa Lucia. La grande tela è occupata dalle figure nella parte inferiore mentre i due terzi superiori fanno intravedere un luogo scuro, un muro di mattoni, vi si scorge un arco. Il luogo in cui Caravaggio ambienta la scena è il castello Maniace.
Stupor mundi è un lavoro sul tempo.
Si procede secondo un’asse temporale che attraversa le diverse epoche senza rispettarne l’ordine cronologico anzi procedendo per accostamenti analogici o per contrasti. Come se il tempo che attraversa lo spettacolo non possedesse né una forma circolare, né lineare, bensì stratificata. Come se il tempo fosse composto di tante pelli sovrapposte il cui ordine non procede dalla più antica e profonda alla più contemporanea e superficiale bensì si sfogliasse come in un sogno in cui il prima e il dopo hanno un valore totalmente autonomo.
Stupor mundi è un è anche un lavoro sullo spazio.
Il linguaggio espressivo di Stupor Mundi è mobile composito e stratificato come il tempo di cui tratta e si serve della spazializzazione dei suoni, di interventi pittorici immateriali creati e distrutti in tempo reale, dei corpi intrecciati allo strumento musicale dei performer, di un uso della luce come segno prima ancora che come pura illuminazione…
Lo spettatore-visitatore è invitato a compiere un viaggio nello spazio e nel tempo: si trova a dover far convivere all’interno della propria visione: parole arcaiche e suoni contemporanei, iconografie del passato con supporti tecnologici moderni e lo fa gradualmente, trovandosi a poco a poco dentro l’opera stessa a stretto contatto con i suoi stessi artefici.
Quest’ opera lavora anche sulla visione.
La vista, l’occhio, la direzione degli sguardi, la linea tra punti di vista che si incrociano materialmente tra loro, sono una delle suggestioni su cui Stupor Mundi fonda la sua essenza. Lo sguardo stesso dello spettatore che da lontano si fa prossimo all’opera ed è continuamente spinto verso punti di fuga sempre diversi, è argomento di creazione.
Lo sguardo verso l’alto, dall’alto verso il basso, che cerca di vedere in lontananza, che si trova a contemplare da vicino, che sfugge e si fa catturare, che si perde in labirinti architettonici e si ritrova seguendo un filo visionario…
Il percorso fisico dello spettatore ha inizio nella parte alta del Bastione e prosegue poi inoltrandosi nella punta verso il mare.
Successivamente affacciandosi dall’alto verso il basso attraverso la balaustra di pietra, ha una sguardo distaccato e ampio sulle visioni che prendono vita al di sotto, in un susseguirsi di simboli e segni appartenenti a differenti vicende e realizzati con un montaggio video ”stratificato”.
Solo in seguito attraversando un passaggio architettonicamente simbolico quale il tunnel inclinato verso il basso, finirà per trovarsi di fronte alla vita, dentro le cose, senza più diaframma a stretto contatto con la materia scenica.
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